lunedì 16 novembre 2015

Toki Tori 2 - Recensione



E’ difficile immaginare la complessità mostruosa che si cela dietro la semplicità dei movimenti e la caratterizzazione dei personaggi. Questo è forse quello che rende Toki Tori 2 così affascinante.
Coloro che hanno giocato al primo, probabilmente tratti in inganno dalla grafica quasi bambinesca, sono andati a sbattere con violenza con la complessità del gioco, che ha una struttura rigida e precisae una logica impeccabile. Ma toki Tori 2 estende tutte queste sue caratteristiche particolari e le estende e incrementa, rendendolo un gioco dalla enorme complessità e dalla incredibile struttura.

Una struttura particolare

Coloro che hanno giocato al primo, abituati alla rigida struttura a livelli, rimarranno un pò sorpresi nello scoprire che questo gioco è in realtà un open world. In qualsiasi momento siamo in grado di andare in qualsiasi zona noi desideriamo, con lo scopo di raccogliere collezionabili e risolvere puzzle.
Verrebbe da dire quasi che si tratta di un metroidvania, ma c’è una distinzione fondamentale con questo genere. Mentre nel metroidvania il progresso è bloccato finché non si ottengono determinate abilità, in Toki Tori 2 ogni capacità è subito a nostra disposizione, rendendoci quindi, almeno in teoria, in grado di raggiungere qualsiasi altra parte del gioco fin dall’inizio.
Il gioco però ha una struttura esplorativa in cui imparare come sfruttare tali abilità è un processo continuo. E di cose da imparare ce ne sono davvero molte.
Ad esempio, possiamo incontrare fin nei primi livelli delle parti in cui l’erba è stata tagliata. Noi siamo in grado di far ricrescere tale erba bagnandoci e portando acqua in queste zone, permettendoci di sbloccare zone che prima erano a noi inaccessibili.
Questo è solo un esempio, ma ci sono decine di queste piccole meccaniche di cui dobbiamo tenere conto per poter proseguire, e soprattutto completare il gioco.

Un gameplay molto semplice… O no?

Molti rimarranno sorpresi nello scoprire che nell’intero gioco abbiamo solo 3 comandi che possiamo usare: il semplice movimento, un canto che permette di produrre note lunghe o corte e una rumorosa caduta a terra.
Queste azioni sembrano apparire così semplici a prima vista che immaginare di creare un intero gioco da una cosa del genere sembra impossibile. Eppure Toki Tori 2 vi riesce egregiamente, e anzi crea situazioni in cui si possono eseguire combinazioni estremamente complesse.
Questo è permesso soprattutto grazie alla interazione del piccolo pulcino protagonista con altri esseri che vivono nel mondo circostante. Il modo in cui noi possiamo interagire con questi personaggi rappresenta un vero e proprio linguaggio, che va imparato e aggiustato con il tempo. Tramite il nostro canto possiamo ad esempio attirare l’attenzione di alcune rane per farle camminare nella nostra direzione, oppure possiamo usare la schiacciata per far cadere degli oggetti che alcuni uccelli portano in volo.
Non voglio dire più di tanto relativamente a queste meccaniche di gioco, in quanto sento che scoprire il modo in cui esse funzionano rappresenta gran parte del piacere di giocare questo titolo.

Design pulito e preciso

I fan del primo gioco saranno lieti di sapere che il puzzle design per questo titolo è tanto efficace nel primo capitolo quanto nel secondo. I puzzle che ci si parano davanti sono sempre risolvibili con il livello di conoscenza che abbiamo accumulato finora, e l’ambiente lascia intuire sempre indizi per come proseguire se per caso si finisca per essere bloccati.
Ogni puzzle è sintetico, in cui ogni elemento è richiesto nella risoluzione. Se ci sono parti del puzzle che non sono state utilizzate, allora ciò significa che ci sono segreti che non sono stati sfruttati. Inoltre la progressione è eccellente, in cui i puzzle delle aree iniziali sono molto semplici, per poi diventare più complessi nelle aree intermedie fino a diventare assolutamente ostici nelle ultime parti del gioco. Nonostante più di 14 ore di gioco, ci sono puzzle del gioco che non ho la minima idea di come risolvere.
Questo però non significa che i puzzle sono disonesti: ognuno di essi è risolvibile con tutti gli elementi che abbiamo a disposizione. Questo è un traguardo non facile da raggiungere per un gioco, ma Toki Tori 2 lo supera in maniera eccellente. Questo rende la risoluzione dei puzzle particolarmente piacevole, e mi ha fatto completare la quest principale del gioco senza mai guardare delle soluzioni su internet. Infatti, il piacere deriva soprattutto dal riuscire ad usare gli elementi che si hanno in maniera nuova e inaspettata, rendendo la sfida del puzzle piacevole e mai frustrante.

Un mondo vasto ed eloquente

Anche se il gioco non ha nemmeno una linea di dialogo in esso, c’è una eloquenza nel modo in cui il piccolo pulcino protagonista e i vari personaggi interagiscono che creano una narrativa davvero stupefacente per un gioco così semplice.
Ovviamente la quest principale è di una semplicità palpabile, tuttavia tale semplicità è quasi accresciuta dalla mancanza di dialogo, in quanto è come se fossimo noi a comunicare con il mondo esterno tramite le nostre azioni, e non il gioco che ci espone freddamente gli eventi. Ciò crea un livello di carisma e di tenerezza che ben pochi altri giochi sono riusciti a eguagliare.
Le zone da esplorare sono numerose, con alcune sorprese che non solo divertono ma accrescono la dimensione del mondo, rendendolo più interessante e caratterizzato.
Il gioco ha anche un elemento di umorismo non trascurabile. Il modo in cui il giocatore interagisce con molti personaggi crea situazioni molto simpatiche e divertenti, e più di una volta sono riuscite a strapparmi un sorriso.

Conclusioni

Mi sento di raccomandare questo gioco con tutto me stesso. Se siete fan di metroidvania e di puzzle game è un must, ma anche se non sono giochi che apprezzate di solito sono sicuro che c’è qualcosa che riuscirete ad apprezzare comunque.
Purtroppo il gioco sembra essere passato sotto il radar di molti giocatori. Se ne avete la possibilità, compratelo. E’ un gioco rilassante e piacevole, uno di quei pochi da fare con calma e senza fretta, gustandoselo a fondo.
Lo trovate su Steam.

giovedì 9 luglio 2015

Paura e Delirio a Las Vegas (1998) - Recensione

Avete mai desiderato provare l’esperienza di essere sotto sostanze stimolanti e/o allucinogene, ma avete paura delle possibili conseguenze?
Semplice: guardatevi Paura e Delirio a Las Vegas. Alla fine del film vi sentirete come se vi circolasse in corpo LSD pura.
Il film è tratto dal quasi omonimo romanzo semi autobiografico di Hunter S. Thompson, considerato il padre fondatore del cosiddetto giornalismo gonzo, di cui il suo romanzo è uno dei più famosi esponenti.

Il Genio Psichedelico di Terry Gilliam

Gilliam è probabilmente il regista perfetto per questo film. Autore delle famose animazioni allucinogene dei Monty Python, è indubbio che non avrebbe evitato il difficile compito di riprodurre uno stato di conscienza alterata.
Tuttavia, il film supera qualsiasi aspettativa. Il sapiente utilizzo di lenti, luci, movimenti di telecamera e ambienti particolari a seconda della droga di cui il nostro protagonista è succube rende in maniera eccellente lo stato mentale dei protagonisti.
La telecamera è inclinata per quasi tutto il film, a parte durante le rare isole di lucidità che punteggiano la pellicola. Questo dà un forte senso di disorientamento, quasi di nausea. I colori vanno da realistici a psichedelici. L’uso di luci verdi, rosse, arancioni e blu è molto comune, e sono forse uno dei maggiori segni visivi lasciati da questo film.

Un Cast Divino

Anche se la regia ha sicuramente la sua impronta, quello che però rimane più impresso del film sono le interpretazioni dei due protagonisti: Johnny Depp e Benicio del Toro. Entrambi danno tutti se stessi nel mostrare in volti, atteggiamenti e vocalizzi l’effetto di droghe pesanti nel loro corpo.
Depp in questo film è davvero sorprendente. Sono film come questi che ti fanno pensare che forse è meglio strapparlo dalle mani di Burton per metterlo tra le braccia di registi più visionari. Nonostante la difficoltà del ruolo, Depp mostra una grande capacità di immedesimazione, creando perfettamente l’illusione di essere veramente Raoul Duke.
Benicio del Toro è la spalla perfetta, alche lui mostruoso nella sua interpretazione. Riesce a trasmettere perfettamente la chimica della scena, sia quella tra i due personaggi, sia quella che gli scorre in corpo.

Una Struttura Narrativa Particolare

La storia è semplice da riassumere: due uomini viaggiano per las vegas sotto l’effetto di sostanze chimiche. Non c’è all’effettivo una trama nel senso convenzionale del termine. In quanto tratto da un libro di stampo giornalistico, il film ha più un sapore di “finestra di vita” più che di un tradizionale blockbuster americano, e ciò che vedremo per il 90% del film sono i due protagonisti che cercano di districarsi dalle situazioni assurde in cui le sostanze alteranti li gettano.
Anche se ciò può sembrare noioso da guardare, il risultato è invece sorprendentemente divertente. Il film assume quasi una qualità da commedia a skech, in cui i protagonisti cadono da una situazione tragicomica nella successiva. In più di una occasione mi è capitato di ridere ad alta voce.
Questa scelta narrativa ha anche un effetto sinergico sul tema che esso affronta, ovvero le droghe. Un pò come quando si è sotto l’effetto di sostanze alteranti, ciò che conta è l’esperienza più che dove si arriva. Il film è esattamente questo, una esperienza, una vignetta che mostra l’effetto sulla psiche di due persone di una sfilza di droghe di varia natura.

L’efficacia del Giornalismo Gonzo

Detto questo, può sembrare quasi assurdo pensare che un film come questo possa avere un qualche tipo di messaggio. Eppure, la posizione dell’autore sulle droghe emerge in maniera molto efficace e diretta.
Guardando Duke e Gonzo sotto l’effetto, ci facciamo da soli alcune opinioni sul mondo della droga e sulla verità dietro certi tipi di stati mentali alterati. Nonstante l’indubbia soggettività della esperienza, il film riesce comunque a comunicare un messaggio sul tema delle droghe, a mio parere molto più efficace di qualsiasi analisi esterna ad esse.
Il giornalismo Gonzo non cerca di trasmettere un messaggio passando per l’evidenza dei fatti, ma usando la soggettività di una esperienza. Thompson sosteneva che in questo modo la verità passa comunque, filtrata dalla nostra capacità di capire un punto di vista di una esperienza.
Il film a mio parere esprime perfettamente questo concetto, facendoci riflettere sul mondo della droga senza tirarci addosso numeri o statistiche, ma semplicemente facendoci vedere quello che veramente succede.

Conclusioni

Il film non è sicuramente tradizionale, come tutti i film diGilliam d’altronde. Tuttavia è una visione consigliata a chiunque desideri passare due ore diverse, possibilmente con gli amici.

mercoledì 8 luglio 2015

Actual Sunlight - Recensione



Ho imparato una cosa da questo gioco: chi soffre di depressione non può fare un gioco sull’argomento.
La depressione è sicuramente un tema importante in qualsiasi epoca e per qualsiasi persona, ed è quindi fondamentale parlarne.
Ci sono al momento due giochi che parlano della depressione dal punto di vista di chi la soffre. Uno è Depression Quest di Zoe Quinn, l’altro è Actual Sunlight. Entrambi, a mio parere, hanno enormi lacuine nel modo in cui affrontano il problema. Anche se in questa recensione parlerò di Actual Sunlight, ciò che ho notato è che i problemi di cui parlerò affliggono entrambi i giochi.

Il “Gioco”

Anche se viene definito un gioco, questa “esperienza” ha ben poco da mostrare sotto questo aspetto. Non ci sono scelte vere e proprie in tutto il gioco, e in pratica non siamo altri che testimoni del modo in cui la vita di Evan parte male e finisce peggio.
Molti giochi scelgono questo tipo di struttura, dando un feeling più da “romanzo interattivo” che vero e proprio gioco. E funziona molto bene in molti tipi di racconti - ma non per il tema qui affrontato.
La depressione è una questione di scelte alla radice. Anche il gioco lo stesso lo ammette più di una volta nel corso della storia. Eppure, la scelta ci viene negata, rendendoci solo partecipi del disastro che ne consegue.
E’ come essere su rotaie che portano verso il vuoto (letteralmente) e non avere un freno per evitare il peggio. Il messaggio trasmesso in questo modo è forte, sottolineando la sensazione di inevitabilità che prende le persone fortemente depresse.
Tuttavia, il messaggio perde parte del suo impatto in quanto ci viene preclusa la possibilità di vedere “cosa sarebbe successo se”. Come possiamo capire lo stato del protagonista se le sue scelte non coincidono con le nostre.
Depression Quest porta questa scelta ad un livello superiore. Nel gioco infatti le scelte più ovvie e logiche sono inaccessibili, lasciando spazio solo a scelte più negative. Anche qui, l’impatto di una scelta del genere è forte, ma ritengo che sia in qualche modo un imbroglio guidare le scelte del giocatore in questo modo.

I “Personaggi”

I problemi più grandi però risiedono nella struttura della storia in sè, ed in particolare dei personaggi. Onestamente, tutti i personaggi della storia sono piatti e senza un vero carattere. Sono caricature, fantocci messi là per riempire spazi.
E si, anche il protagonista lo è.
La motivazione è semplice: la depressione per il personaggio non è qualcosa che entra nella sua vita. La depressione è la sua vita.
Il personaggio inizia la storia già depresso. E questo è per me uno dei problemi più grandi del gioco. Come possiamo capire la situazione in cui si trova Evan se noi magari non abbiamo mai sperimentato il suo livello di depressione?
L’immedesimazione con la situazione del personaggio è quindi difficile, se non sei un maschio bianco che va per i trenta e con problemi a relazionarsi con gli altri. Io lo sono, e comunque ho avuto un pò di difficoltà a capire alcune scelte del personaggio.
Il resto della struttura della storia non aiuta. L’unica funzione che i personaggi intorno a lui hanno è quella di ricordargli che la sua vita fa cagare. Anche le sedie che ha in casa gli ricordano che è un cretino. Il paese delle meraviglie, insomma.

Il “Messaggio”

Tuttavia, la parte in cui penso che il gioco ha veramente toppato è stato nel finale. Spoiler: il protagonista si suicida. Non che sia un grande spoiler comunque, se hai giocato il gioco per più di trenta secondi. Tutta la traccia quasi autobiografica e fortemente autobiografica che il gioco ha cercato di tracciare finora si dissolve nel nulla.
Il motivo? Semplice. Se l’autore è riuscito a creare il gioco, allora sicuramente non si è suicidato (che io sappia almeno). Questo mi fa domandare perché abbia voluto scegliere un finale del genere.
Quale è il messaggio che dà un suicidio? Che la vita è senza via d’uscita. Onestamente, il fatto stesso che l’autore abbia scelto di rilasciare questo gioco mi fa dubitare di questa visione.
Un altro problema di questo tipo di messaggio è che dà corda alla cosiddetta “mentalità della vittima”, uno dei veleni più potenti che la mente è in grado di secernere. Una persona che si sente depressa e gioca a questo gioco non potrà fare a meno di dire “esatto, è così” e crogiolarsi nella propria poltrona di spine come se fosse il posto più sicuro del mondo.
Il gioco in qualche modo “giustifica” la depressione ed è una cosa che ritengo pericolosa.
Personalmente credo molto nel potere terapeutico delle storie, così come nel loro potere distruttivo se male sfruttato. Actual Sunlight ha preferito il secondo al primo, e come gusto personale non riesco a condonare questa scelta.

I Risvolti Positivi

Tuttavia, il gioco ha una qualità innegabile. I messaggi trasmessi sono pungenti e diretti, e se sei un ragazzo intorno ai 25 anni oggi, colpiranno dove fa più male.
Anche se deprimenti, i messaggi sono forse la parte più significativa del gioco. Un giocatore non potrà fare a meno di guardare la propria vita sotto una luce nuova, dopo che il gioco ha portato l’attenzione su certi aspetti.
Il testo di questo gioco ha la rara qualità di permetterti di guardare la tua vita dall’esterno, facendoti riflettere su alcune scelte che hai fatto, e magari farti prendere azione per cambiare. E qualunque forma di espressione che sia così sincera da fare questo merita un pò di attenzione.

Concludendo

Detto questo, consiglio il gioco oppure no?
Onestamente, non lo so. Dovete vedere da soli. Se il tema trattato vi interessa, vi consiglio di giocarlo, magari con uno spirito un pò critico. Se avete problemi con la depressione, vi consiglio di evitarlo.
Io l’ho giocato perché mi interessava avere una nuova prospettiva sull’argomento. Anche se con i suoi difetti, posso dire che ci è riuscito.
Il gioco è disponibile su Steam al costo di 5 euro

sabato 9 maggio 2015

Legend of Grimrock - Un moderno dungeon crawler


Il genere del dungeon crawler, fino a vent’anni fa uno dei
generi più importanti nel mondo videoludico, ha subito una ingiusta decimazione nei tempi recenti. Esponenti del genere recenti sono davvero pochi, trovati perlopiù nel genere MMORPG, e perdono molta della natura esplorativa che li contraddistingue per diventare grindfest nudi e crudi.
Gli sviluppatori Almost Human, una casa di produzione finlandese, ha deciso che era ora di svecchiare il genere, portando i fasti dell’esplorazione sotterranea ai giorni nostri. Riportare in vita un genere complesso come quello del dungeon crawler non è affatto un semplice compito, anzi. Le possibilità di fallire sono molte, e tutte difficili da evitare, a meno di conoscere a fondo il genere.
Almost Human ci è riuscita, dando mostra non solo di una conoscenza del genere profonda. La loro creatura, Legend of Grimrock, non è solo un eccellente dungeon crawler, ma è un gioco eccezionale in sè, indipendentemente da quanto uno possa apprezzare il genere in sè.
Legend of Grimrock (d’ora in avanti LoG) riesce a catturare l’essenza di trovarsi in cunicoli bui ed ostili, combattendo mostri temibili e superando tranelli, riuscendo al tempo stesso a dare un feeling moderno e accessibile (e soprattutto, piacevolemente giocabile) ad un genere che sicuramente ha i suoi limiti da questo punto di vista.
Ci sono numerose ragioni per cui LoG è un gioco adatto a tutti, e da cui molti altri sviluppatori potrebbero imparare una cosa o due.

Esplorazione

L’esplorazione è l’essenza stessa di un dungeon crawler, prima ancora di tutte le statistiche puramente RPG. Un pò come l’arma che imbracciamo è il fulcro attorno a cui ruota tutto il gameplay di un FPS.
Per poter capire un momento che cosa si intende veramente per esplorazione, è importante vedere quali sono le radici del genere.
Il dungeon crawler nasce come parte del gioco di ruolo, il famoso Dungeons and Dragons. Al contrario di quest’ultimo, che si concentra più sul gioco di ruolo vero e proprio, il dungeon crawler preferisce la strada più diretta dell’esplorare i famosi dungeon, in cerca di risorse ed armi e difendendosi da creature ostili e trappole subdole.
Anche se la ricerca dell’arma più potente del gioco ha il suo piacere, senza dubbio ciò che più si apprezza in un buon dungeon crawler è la sensazione di visitare luoghi inesplorati, tastando piano piano tutto il territorio mappandolo, e cercando di scoprire trappole, segreti e visitando ogni anfratto.
LoG riesce perfettamente nel suo intento di ricreare questa emozione. I livelli infatti risultano essere strutturati in maniera che rende la mappatura non solo una convenienza ma anche una necessità. L’esplorare bene ogni angolo di ogni livello è quindi di vitale importanza per permettersi di progredire nel gioco.
La struttura dei livelli non è casuale, come molti esponenti del genere tendono ad usare. Questa può essere una nota positiva o negativa a seconda dei gusti del giocatore. Naturalmente, il fatto di avere livelli curati a mano significa che c’è un livello di dettaglio e di cura dal punto di vista di trabocchetti e struttura dei livelli che non è sicuramente possibile ottenere con dungeon generati automaticamente. Tuttavia, questo limiterebbe fortemente la rigiocabilità, in quanto percorrere due volte gli stessi dungeons perde tutto il piacere che un dungeon crawler dovrebbe saper dare.
Tuttavia, in LoG questa, almeno a mio parere, sembra essere stata una scelta azzeccata. Essendo un gioco in cui i dungeon sono i protagonisti, più che il gruppo che portiamo avanti livello per livello, era fondamentale che i livelli risultassero essere stimolanti. Quindi questa scelta di design risulta dare molto più smalto ad un gioco che altrimenti sarebbe potuto risultare blando.
Ma Almost Human non ha tralasciato completamente il problema della rigiocabilità: sono infatti disponibili ottimi tool di modding, che permettono a chiunque di creare mod gratuite. Il gioco dispone oggi di centinaia di mod, molte delle quali dalla qualità eccezionale, che aumentano di sicuro la rigiocabilità del titolo senza sacrificarne la qualità in termini di gameplay.

Movimento

Il giocatore si muove nei dungeon in prima persona, ma a differenza di molti giochi in cui il movimento risulta essere libero, in LoG il movimento del nostro party sarà limitato alla classica “scacchiera”, in cui possiamo muoverci di una casella in ogni direzione. Anche se forse può far storcere il naso ai moderni giocatori, abituati a libertà di movimento più ampie, questa scelta si sposa perfettamente non solo con la esplorazione dei livelli, ma anche, come vedremo tra poco, nelle battaglie.
Utilizzare questo metodo di movimento, anche se forse poco naturale all’inizio, si integra rapidamente nelle mani del giocatore, che riesce a muoversi senza problemi tra corridoi e stanze già dopo pochi minuti di gioco. Ed è allora che si inizia anche ad apprezzare la finezza del gioco dal punto di vista di indovinelli e segreti. Per riuscire infatti ad avanzare e scoprire i tesori più preziosi, è di fondamentale importanza saper analizzare ogni angolo del livello, alla ricerca di chiavi o bottoni nascosti tra i mattoni. E la possibilità di muoversi in maniera precisa permette esattamente questo. Un tipo di movimento più libero avrebbe sicuramente reso più difficile notare i piccoli dettagli necessari a proseguire nel gioco.

Combattimento

All’inizio del gioco prendiamo custodia di un piccolo party di giocatori, di cui è possibile scegliere statistiche come meglio vogliamo. In quanto i nostri quattro amici sono legati mani e piedi tra di loro da catene, essi sono costretti a collaborare per sopravvivere, cercando di sfruttare al meglio ognuna delle proprie capacità.
La formazione è classica, due giocatori nell’avanguardia per attacchi diretti, e due giocatori nella retroguardia, per magie ed attacchi a distanza. Si inizia a notare fin dai primi combattimenti che sarà fondamentale maneggiare con cura le capacità di ogni giocatore per riuscire a sopravvivere, in quanto il gioco inizia a picchiare duro fin da subito.
Ognuno dei giocatori sale di livello, permettendo di ottenere capacità uniche ad ognuno a seconda della classe. Le scelte di progressione dei giocatori non sono moltissime, limitandosi a scegliere tra una manciata di abilità. Anche se questo limita la personalizzazione del personaggio, da un altro lato permette anche di evitare di essere sommersi dalle scelte, rendendo la progressione del gioco più fluida.
Tuttavia, tali abilità sono solo una parte delle strategie che possiamo utilizzare per avanzare nel gioco. Al contrario di molti RPG classici, infatti, in LoG sapere come muoversi nel livello per evitare di essere fiancheggiato è una abilità tanto fondamentale quanto le abilità dei giocatori stessi. Inoltre, gli attachi variano molto da creatura a creatura, costringendoci ad utilizzare strategie di attacco molto diverse a seconda del nostro avversario.
Una nota va fatta sul sistema delle magie. Il nostro mago del party non solo infatti richiederà un certo livello per poter eseguire certe magie, ma è anche necessario conoscere il pattern da digitare su una sorta di tastierino magico per lanciare la nostra magia. Questo aspetto può avere i suoi lati positivi e negativi, in quanto rende l’esplorazione di quali magie uno può lanciare più stimolante, ma dall’altro lato digitare sempre le stesse formule ad ogni combattimento diventa rapidamente noioso.

Conclusioni

LoG è un gioco che merita sicuramente di essere giocato da tutti gli appassionati di esplorazione ed avventura.
Il gioco è attualmente disponibile su Steam al prezzo di € 14,99

giovedì 5 marzo 2015

Birdman (2014) - Recensione


Recitare non è facile. Recitare una parte che discute la questione del recitare è ancora più difficile. Scrivere un film che agisce come metafora per l'intero mondo dello spettacolo, sembra impossibile.

Eppure Birdman ci riesce, e anche con notevole successo.

Rivelazione degli Oscar 2015, il film si è portato a casa ben quattro statuette. E, ricordiamo, si tratta di roba importante: miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior regia, miglior fotografia.

Ma tutte queste statuette, il film, se le è davvero guadagnate? Oppure siamo di fronte alle solite scelte dubbie che alimentano la percezione del magna magna dietro le quinte?

Diamo un'occhiata dietro le quinte insieme.

Sceneggiatura

La storia parla di Riggan Thompson, attore di successo decaduto che cerca di riconquistare il pubblico con il teatro. Nel film seguiamo le sue peripezie, problemi tecnici, conflitti con attori e parenti, il pubblico, la critica. E, soprattutto, siamo testimoni di superpoteri che l'attore possiede.

Noi come spettatori seguiamo tutte le vicende dietro le quinte dello spettacolo, come se fossimo parte del cast. Quasta scelta permette allo spettatore di cambiare visuale dalla platea ai camerini, mostrando tutti i problemi, i conflitti e le crisi che scorrono invisibili dietro le quinte. Si realizza che lo spettacolo in sè, l'insieme delle persone che recitano sul palco, non è altro che la punta dell'iceberg che galleggia su di una enorme quantità di lavoro e sofferenza di cui noi, come pubblico, non siamo resi partecipi.

La sceneggiatura ammicca al passato di Keaton, ed è facile vedere i parallelismi tra la vita del personaggio e dell'attore in carne ed ossa. Birdman è ovviamente Batman, di cui Keaton ha ricoperto il ruolo in passato. E il film vuole in qualche modo mostrare la vita di un uomo come Keaton, un attore, ex celebrità che cerca di riprendersi i favori del pubblico con lavori più impegnati.

Questo aiuta sicuramente a sfumare la linea di divisione tra realtà e finzione, sulla quale il film corre in maniera sapiente e che diventa a tutti gli effetti il tema fondamentale del film.

La sceneggiatura tocca però un numero vastissimo di temi collegati al mondo dello spettacolo, affrontati in maniera molto elegante e incastrandosi alla perfezione nel flusso continuo del film. Temi come la critica, il rapporto con il pubblico, il giudizio del pubblico sono tutti visti da una ottica che a noi. come pubblico, risulta nascosta, permettendoci di dare una nuova ottica su cosa sia, in realtà, la celebrità.

Regia

Il regista ha deciso di farsi notare con una scelta peculiare che forse è la caratteristica più evidente del film.

Mentre un film "tradizionale" non è altro che una sequenza continua di spezzoni incollati ad arte in un film, Birdman prende la struttura di un flusso di conscienza, dove una scena si versa nell'altra in maniera naturale.

Questo permette al film di scorrere come un fiume in piena, incastrando una scena dentro la sucessiva come in un flusso continuo.

Tale scelta aggiunge difficoltà alla realizzazione del film, una sfida di per sè già notevole. Saper gestire simili cambi di scena mantenendo  le tempistiche e le struttre delle scene, l'illuminazione diventa una impresa pià che notevole.

La motivazione dietro una scelta così complessa è immediata quando si lega questa struttura al contenuto del film. Il protagonista principale è senza ombra di dubbio il teatro, e voler dare una simile forma ad un film, nonostante le difficoltà,  sicuramente aumenta l'immersione nei temi trattati.

L'altra difficoltà che questa scelta comporta è che tutte le scene del film sono fatte in presa diretta. Niente tagli, niente transizioni, niente scene multiple: ogni scena del film è un piccolo dramma teatrale, che deve andare bene alla prima oppure si deve rifare daccapo. Questo lascia spazio alla bravura degli attori che tutti, nessuno escluso, danno mostra di doti recitative davvero eccezionali, e dà un sapore molto più anico e teatrale al film.

Questa scelta ha però anche i suoi svantaggi: infatti il film scorre in maniera continua, senza lasciare molto spazio di respiro allo spettatore. Non è necessariamente una scelta negativa, però sicuramente mette alla prova uno spettatore abituato ad un formato standard. Esso richiede uno sforzo mentale per seguire le scene considerevole, dilatando le due ore di film e facendole sembrare più del tempo reale.

Il confine dello specchio

Una nota particolare la merita la questione dei superpoteri. Dare al protagonista dei poteri come la telecinesi può sembrare una scelta curiosa, soprattutto considerato il tono realistico e messo a terra del resto del film. Qualcuno può considerarla una cavolata, forse a ragione. A mio parere questa scelta però ha una funzione molto importante al fine del film: serve a ricordarci che, nonostante il film cerchi di scavalcare il confine tra realtà e finzione, si tratta pur sempre di un film.

La sceneggiatura costruisce questa illusione che stiamo guardando qualcosa di verosimile, poi distrugge tale illusione mettendoci sotto gli occhi superpoteri ed effetti speciali, degni del miglior blockbuster. Questa rottura serve a farci riflettere: lo scopo del cinema non è altro che quello di creare l'illusione della realtà.

Questa scelta rende tale illusione evidente. Già nel resto del film ci sono diverse scene in cui si ammicca a ciò, partendo dal più realistico contesto di due attori che recitano una parte. Possiamo sempre capire quando un attore recita e quando è veramente se stesso? Allo stesso modo, possiamo capire il punto in cui l'illusione del cinema si distacca dalla realtà per creare una realtà sua, separata?

Questo tipo di sottigliezza è molto interessante, e il film riesce in maniera eccellente ad esprimere questo concetto.

Fotografia

Una nota speciale la merita la fotografia del film. Il film è eccellente da vedere, e ogni scena ha il suo tono e calore. Questo non è esclusivo a Birdman tra tutti i film candidati alla miglior fotografia. Ma allora perché è stato scelto questo film, sopra tutti gli altri?

Semplice. In quanto il film è dovuto essere ripreso in presa diretta in tutte le sue scene, questo ha implicato un numero non indifferente di problemi per il direttore della fotografia. Nessuna delle scene è completamente statica, e l'utilizzo di steadicam è continuo per tutto il film.

Questo implica che la pianificazione delle scene è di notevole difficoltà, richiedendo un lavoro preparatorio notevole, con numerose sperimentazioni e tentativi. Ciononostante, il film eccelle dal punto di vista visuale. Il riuscire a conquistare una sfida notevole come questa rende la statuetta per questo film un merito quasi necessario.

Una nota sulla musica

Mi premeva parlare di questo punto perché è un'altra questione che distanzia Birdman dalla maggior parte degli altri film.

L'intera colonna sonora (escludendo poche eccezioni) è composta da assoli di batteria. Non si hanno epiche colonne sonore orchestrate, ma assoli jazz di batteria, composte da un solo uomo. Esatto.

Può sembrare una scelta curiosa, però a posteriori si mescola bene con le varie scene in quanto evita di dare un tono particolare al film, lasciando il giudizio emozionale a carico dello spettatore.

Tuttavia, questa originalità non è stata premiata. Antonio Sanchez, il batterista autore della colonna sonora, a quanto pare è stato escluso dagli oscar in quanto il film contiene un rapporto troppo elevato di musica classica in confronto alla colonna sonora originale. Sanchez si è incazzato notevolmente e ha voluto fare causa. E' facile capire la sua rabbia: le sue doti come batterista sono davvero impressionanti, e il regista stesso ha ammesso di aver basato molte delle sue scene sulla energia del ritmo che riusciva a creare.

Il film nel complesso

Birdman è senza ombra di dubbio figlio dell'epoca postmoderna, dove la linea tra autore e opera si sfuma e quasi scompare. Senza ombra di dubbio un eccellente film dal lato tecnico, forse finisce per essere un pò troppo ricercato. Il contrasto tra le lodi della critica e i pareri critici del pubblico ne sono un indizio. Nonostante il cinefilo in me non può che apprezzarlo, lo spettatore in me ha apprezzato molti film candidati all'oscar più di Birdman. A volte, essere troppo tecnici nel voler trasmettere un messaggio implica che esso viene perso da chi invece cerca solo intrattenimento.

Tuttavia, nel complesso si può dire che si merita la statuetta di miglior film. Hollywood sta cercando sempre più negli ultimi anni di apparire più ricercato, preferendo eccellenze tecniche che ammiccano al passato dell'impero della pellicola. C'è sicuramente un atto masturbatorio in atto, in cui gli artisti di Hollywood si massaggiano l'ego con lavori che provengono da casa loro.

Questo però non toglie che la qualità del film è sicuramente notevole. Consigliato a chiunque adori il teatro e il cinema, in quanto dà numerosi spunti su cui riflettere.

domenica 1 marzo 2015

Lo Sciacallo (2014) - Recensione

 
Non è raro chiedersi, nel guardare video di eventi catastrofici, chi sono in verità i volti dietro la macchina, quelli che stanno riprendendo il tutto per distribuirlo al mondo. Chi sono questi individui? Quali sono le loro motivazioni?


Il film Lo Sciacallo, candidato per miglior sceneggiatura originale agli oscar 2015, affronta proprio questo argomento. C'è da dire che sia il nome in italiano che quello inglese del film (Nightcrawler è un tipo di lombrico che spunta fuori solo di notte) sono perfettamente idonei per identificare il protagonista del film, Lou, interpretato da un divino Jake Gyllenhaal. Ma andiamo con calma.



Un mondo nascosto dietro la videocamera

Lou fin dalle prime scene si caratterizza come un giovane che come tanti fa di tutto per guadagnarsi da vivere, con notevoli difficoltà. Divenrsamente da tanti però Lou appare non avere molti scrupoli nel modo in cui ottiene i suoi soldi.

Il termine sociopatico è il primo che viene in mente vedendo la sua totale mancanza di empatia verso gli altri.
Assiste ad un incidente, e la cosa che gli rimane più impressa dell'evento non è il corpo sanguinante di un uomo, ma un reporter d'assalto, uno sciacallo, che appare per fare qualche ripresa e sparisce poco dopo.

Lou si ritrova immediatamente attratto da un lavoro del genere, e scopre di avere un talento naturale per esso. La sua totale mancanza di empatia lo rende un gioiello per le reti locali, che si aggiudicano i suoi video pieni di sangue e violenza per cifre notevoli.



Lou, cinismo e pianificazione

Il film, però, sfrutta la questione deviata e morbosa dello sciacallaggio non come puro intrattenimento informativo, a mò di documentario. La parte più interessante è che il regista lo usa come un contesto in cui descrivere Lou, che è il vero protagonista del film. Lui è così tanto portato per questo lavoro da fare paura alle stesse reti televisive e colleghi sciacalli.

Lou è sicuramente un giovane intelligente, forse anche superiore alla media. E' evidente che tutto quello che fa, tutti i rischi che corre, non sono mai a vuoto, ma hanno sempre uno scopo preciso, e spesso egoistico. Durante il film si finisce per avere paura di lui, questo antieroe che non ha assolutamente alcuno scrupolo.


Gyllenhaal è davvero incredibile nel suo ruolo. Jake ha sempre dato il meglio di sè in tutte le parti che ha recitato, ma in questo film è davvero superiore alla media, tanto da domandarmi perché non sia stata considerata una sua candidatura ad un oscar.

Non lo dico con leggerezza. Nel film, Gyllenhaal non esiste. Esiste solo Lou, con il suo cinismo e fredda calcolatezza. Jake ha perso ben dieci chili per entrare nel ruolo, e la differenza si nota chiaramente, diventando quasi irriconoscibile.

La passione e coninvolgimento che Gyllenhaal mette nel ruolo è davvero impressionante. In una particolare scena in cui doveva rompere uno specchio, si è tagliato una mano, necessitando di punti di sutura.


Regia impeccabile

Le inquadrature del film ci mettono a noi, spettatori, come passanti, testimoni della vita deviata di Lou. Le telecamere sono sempre a livello degli occhi, permettendoci di osservare le scelte di Lou da un punto di vista umano, livellato, non moralista.

E' come se noi fossimo dei reporter della vita di Lou, osservando in maniera distaccata la sua vita, giudicando le sue azioni con un metro di giudizio distaccato e cinico esattamente come il suo.

Il film nasconde dietro di esso una critica alla gioventù moderna. Lou è figlio di internet, e come tale ha sviluppato un livello di conoscenza notevole, a scapito della sua umanità. Lo vediamo vivere le sue giornate recluso in casa, davanti a uno schermo.

Il regista ovviamente critica questo tipo di atteggiamento, probabilmente giudicandolo troppo disumanizzante. E forse ha ragione. Non si fatica a credere che Inernet possa generare individui come Lou, freddi e distaccati dalla sofferenza altrui.

Il film nel complesso è coerente, ben strutturato e piacevole da guardare. Il debutto alla regia di Dan Gilroy può essere considerato un successo, specialmente considerato quanto semplice può essere cadere nella banalità e nella scontatezza con un tema come questo.


Oltre il film, un messaggio


Nota di credito va data alla sceneggiatura. Lou, anche se ha comportamenti al limite del criminoso, è solamente un reporter. E' distaccato dagli eventi, e come tale non fa parte del bene o del male. Mentre i veri criminali, quelli davanti il suo obiettivo, la pagano, lui, che si trova dietro tale obiettivo, spesso riesce a farla franca.

La classica formula da favoletta americana in cui i cattivi perdono e i buoni vincono si spezza. Stiamo assistendo ad un reporter che osserva quei crimini, che li osserva da lontano in maniera distaccata, senza lasciarsi coinvolgere. Il buonismo da osservatore svanisce quando ci rendiamo conto che ci sono crimini morali che si possono compiere senza intervenire direttamente, proprio come la intrusiva telecamera di Lou.

Quello che rimane è che il crimine sta solo sullo schermo televisino, ma anche attorno ad esso. Tutta la struttura giornalistica ha le mani sporche. Ma noi, come osservatori esterni, passivi, non possiamo vedere oltre i limiti dello schermo,e in tale modo lasciamo correre tale sudiciume, solamente perché non ci rendiamo conto che esiste.

Il vero crimine è solo quello che viene riconosciuto come tale. Ma se non sappiamo neanche che esiste, come facciamo a riconoscerlo?